La Corte Costituzionale “promuove” la Legge Severino, norma in materia di incandidabilità e ineleggibilità dei condannati. La Consulta ha giudicato infatti «non fondata» la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tar della Campania. I “giudici delle leggi” hanno preso questa decisione dopo una breve camera di consiglio. La questione dichiarata «non fondata» riguardava l’articolo 11 del decreto legislativo, entrato in vigore nel gennaio 2013, con cui si prevedeva l’«applicabilità retroattiva» della norma che stabilisce la sospensione, per 18 mesi, di sindaci, assessori, presidenti o consiglieri provinciali, condannati con sentenza non definitiva.
Il ragionamento della Corte in ordine alla “non irragionevolezza” dell’applicazione retroattiva della c.d. “Legge Severino” appare (ancora una volta, purtroppo) connotato da considerazioni sostanzialmente “politiche”, più che di natura giuridica; ciò che ha reso la Corte stessa da tempo un organo che, sotto le mentite spoglie di giudice delle leggi, molto, troppo spesso si avventura con i propri poteri, mal delimitati dal nostro ordinamento costituzionale, in vere e proprie valutazioni di opportunità di talune norme di legge. Tali poteri si rivelano ancora più incisivi e, per certi versi, potenzialmente aberranti nelle conseguenze del loro uso, se solo si considera che la Consulta non ha al di sopra di essa alcun “giudice di seconda istanza”. Sicché ciò che essa dice costituisce un vero e proprio “giudicato” intangibile. Nel caso concreto risulta di indubbia valenza politica, più che giuridica la considerazione che ha portato i giudici costituzionali a considerare “non irragionevole”, per l’appunto, una norma che, di fatto, si scontra con due dei principi cardine degli ordinamenti giuridici civili: quello di irretroattività di una norma e, di presunzione di non colpevolezza. In sostanza, essi hanno affermato che, di fronte ad una situazione contingente (il numero non trascurabile di reati compiuti da amministratori nell’esercizio delle loro funzioni), un principio fondamentale di qualsiasi ordinamento giuridico dei paesi civili, quello per cui le norme non si applicano in modo irretroattivo, può essere derogato senza causare troppi problemi. Se ne prende atto, ma – seguendo un ragionamento anch’esso di natura “politica”, al pari di quello della Corte Costituzionale – non possono a questo punto non sollevarsi dubbi sugli effetti perversi che una simile norma potrà produrre. Va ricordato che l’Italia é un paese che non brilla certo per celerità nello svolgimento dei processi, al punto che ormai non si contano le sentenze di condanna nei confronti del Ministero della Giustizia per irragionevole durata degli stessi (fatto questo che la Corte non sembra neppure aver preso in considerazione); per non parlare poi delle “risibili” forme di tutela del cittadino contro gli errori giudiziari, insufficienti e, quelle sì, costituenti violazione del fondamentale principio costituzionale di eguaglianza. Tali storture attribuiscono di fatto agli organi della magistratura il potere di decidere nei tempi e nei modi da essi determinati del destino giudiziario (e civile) di qualunque cittadino, al riparo praticamente dal rischio di dover mai render conto personalmente del proprio operato e delle scelte compiute. Con il risultato che, ad esempio, un amministratore corretto ed efficiente potrà essere messo sotto inchiesta per un qualsivoglia esposto (ancorché presentato in modo pretestuoso) e, fatto tutt’altro che improbabile, condannato in primo grado, con conseguente sua estromissione da una carica pubblica da lui fino a quel momento legittimamente ricorperta, salvo poi, dopo anni di attesa, veder riconosciuta la propria estraneità ai fatti o la legittimità del proprio agire; il tutto, però, dopo che il lento dipanarsi nel tempo della sua odissea avrà irrimediabilmente compromesso la sua onorabilità e la sua credibilità di fronte agli elettori.
E’ evidente come le considerazioni appena svolte si trovino in quella zona grigia che separa l’enunciazione di principi latamente giuridici dalle considerazioni di natura, altrettanto in senso lato, politica. Ma, a ben vedere, la loro natura ed il loro contenuto non sono molto diversi da quelli utilizzati per motivare la sentenza della Consulta in commento. Con la differenza, appunto, che anche i magistrati dell’alta corte sono soggetti (o, per lo meno, dovrebbero essere soggetti) soltanto alla “legge”, come prescrive quella Carta Fondamentale la cui integrità proprio essi sono chiamati a tutelare.
Sono state depositate il 19 novembre 2015 le motivazioni della sentenza n. 236 con la quale la Corte Costituzionale ha giudicato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lett. a) del decreto legislativo n. 235 del 2012 (cd. “Legge Severino”); la disposizione censurata prevede la sospensione di diritto dalle cariche per gli amministratori di enti locali che hanno riportato una condanna non definitiva per reati contro la P.A.
Com’è noto, la questione era stata sollevata dal TAR della Campania nel corso del giudizio promosso dal Sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, contro il decreto di sospensione dalla carica emesso nei suoi confronti dal Prefetto di Napoli a seguito della condanna pronunciata in primo grado dal Tribunale di Roma per il reato di abuso d’ufficio; la condanna era successiva alla data di entrata in vigore della “Legge Severino”, ma si riferiva a fatti commessi in epoca anteriore.
Secondo il TAR l’incostituzionalità della disposizione si basava su due presupposti: la natura sanzionatoria della sospensione e l’efficacia retroattiva dell’istituto.
La norma denunciata, nella parte in cui si applica retroattivamente anche nei casi di condanne non definitive, contrasterebbero con il diritto di elettorato passivo e con il principio generale di irretroattività delle norme aventi natura sanzionatoria; vi sarebbe «un eccessivo sbilanciamento a favore della salvaguardia della moralità dell’amministrazione pubblica rispetto ad altri interessi costituzionali quali il diritto di elettorato passivo (art. 51 Cost.), da ritenersi inviolabile ai sensi dell’art. 2 della Carta, nonché posto a fondamento del funzionamento delle istituzioni democratiche repubblicane, secondo quanto previsto dall’art. 97, secondo comma, ed infine espressione del dovere di svolgimento di una funzione sociale che sia stata frutto di una libera scelta del cittadino, ai sensi dell’art. 4, secondo comma».
La Corte Costituzionale respinge tuttavia le censure di incostituzionalità; queste, in estrema sintesi, le argomentazioni dei giudici costituzionali:
1) sulla natura sanzionatoria della sospensione dalla carica, la Corte ricorda che più volte in passato, a proposito di analoghe previsioni contenute in leggi anteriori alla “Severino”, la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità hanno escluso la natura sanzionatoria delle misure che precludono il mantenimento di determinate cariche pubbliche in conseguenza di condanne penali:
•tali misure non costituiscono sanzioni o effetti penali della condanna, ma conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche considerate o per il loro mantenimento: non si tratta, osserva la Corte, «di “irrogare una sanzione graduabile in relazione alla diversa gravità dei reati, bensì di constatare che è venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire l’ufficio pubblico elettivo” (sentenza n. 295 del 1994), nell’ambito di quel potere di fissazione dei “requisiti” di eleggibilità, che l’art. 51, primo comma, della Costituzione riserva appunto al legislatore» (sentenza n. 25 del 2002). In sostanza il legislatore, operando le proprie valutazioni discrezionali, ha ritenuto che, in determinati casi, una condanna penale precluda il mantenimento della carica, dando luogo alla decadenza o alla sospensione da essa, a seconda che la condanna sia definitiva o non definitiva»;
•la sospensione dalla carica risponde ad esigenze proprie della funzione amministrativa e della pubblica amministrazione presso cui il soggetto colpito presta servizio e costituisce misura sicuramente cautelare.
2) La Corte respinge anche le censure relative all’applicazione retroattiva della norma ai mandati in corso:
•di fronte a una grave situazione di illegalità nella pubblica amministrazione, non è irragionevole ritenere che una condanna (non definitiva) per determinati delitti contro la pubblica amministrazione susciti l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica;
•la misura tende ad evitare un «inquinamento dell’amministrazione e a garantire la credibilità dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato dall’ombra gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera»;
•queste esigenze sarebbero vanificate se l’applicazione delle norme in questione dovesse essere riferita soltanto ai mandati successivi alla loro entrata in vigore;
•nell’esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ha ritenuto che una condanna per abuso d’ufficio faccia sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente l’eletto dalla carica, a tutela degli interessi sopra indicati;
•il fatto che la norma renda applicabile la causa ostativa (condanna non definitiva per abuso d’ufficio) ai mandati in corso non è irragionevole; al contrario, osserva la Corte, anche l’applicazione immediata delle nuove cause ostative a chi sia stato eletto prima della sua entrata in vigore costituisce «ragionevole risposta all’esigenza alla quale la normativa stessa tende a corrispondere».
Per questi motivi la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della norma censurata.