CARTABIA CONSULTA L’ AVVOCATO

Avvocato Cofano Le pongo una domanda: “COSA SUCCEDE SE IL CLIENTE NON SI RITIENE SODDISFATTO DEL LAVORO AFFIDATO AL PROPRIO AVVOCATO E LO CITA PER DANNI?”

Come risposta l’ Avvocato Alessandro Cofano (del foro di MIlano) mi ha mandato una relazione dettagliata di una Sua recente “vittoria” .

LA RESPONSABILITA’ DEI PROFESSIONISTI – PARTE I: L’AVVOCATO

Il mutare dei rapporti sociali e l’evoluzione della concezione del rapporto fra consumatori, da un lato, e mondo dell’impresa e delle professioni dall’altro – con una maggior acquisita consapevolezza da parte dei primi dei propri diritti e prerogative – hanno negli anni portato ad un considerevole aumento del contenzioso che coinvolge la generalità degli operatori professionali, nelle loro varie accezioni, in contrapposizione alla rispettiva clientela.

Tale fenomeno ha assunto, soprattutto negli ultimi anni, proporzioni oggettivamente ragguardevoli, al punto da preoccupare i rappresentanti delle categorie di lavoratori autonomi coinvolte, siano essi esercenti attività d’impresa commerciale, oppure svolgenti le cosiddette “professioni liberali” (es. avvocati, ingegneri ed architetti, ragionieri e commercialisti, medici e, in genere, operatori sanitari).

E’, peraltro, un dato di fatto che ciò sia avvenuto anche a causa della “spinta emotiva” indotta da un’informazione, non sempre corretta e, troppo spesso, piuttosto superficiale ed approssimativa, che ha ingenerato nei suoi fruitori aspettative o pretese che, ad un esame più accurato dei fatti, si rivelano di frequente prive di fondamento.

In questo intervento e nei successivi, si cercherà di analizzare le diverse discipline giuridiche, relative alla responsabilità di alcune categorie di operatori professionali, soffermandosi con particolare riferimento agli esercenti le libere professioni più diffuse. A questo fine, verranno presi ad esempio anche casi concreti, da utilizzare come esempi utili alla comprensione del problema, per lo meno nei suoi aspetti essenziali. E, giusto per affrontare subito la parte più difficile della trattazione, visto il diretto coinvolgimento dell’autore, inizieremo questa serie di disquisizioni con l’esame della responsabilità dell’avvocato nei confronti del proprio cliente.

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Sul punto, illuminante è una recentissima sentenza del Tribunale di Milano (Trib. Milano, sez. I civile, 25.06.2018), riguardante il caso di un legale citato in giudizio da una ex cliente, risultata soccombente in un reclamo (una sorta di impugnazione relativa a procedimenti cautelari o in materia di giurisdizione volontaria e/o in camera di consiglio) proposto avanti la Corte d’Appello di Milano, con conseguente condanna della stessa alla rifusione delle spese alle controparti. Il provvedimento di rigetto della Corte era stato motivato con la presunta incompetenza per materia dell’ufficio giudiziario adito, basata su un’interpretazione che la Corte stessa aveva dato di una particolare norma processuale (nella fattispecie, il combinato disposto degli artt. 720 bis e 739 C.P.C.) che, andando oltre il dato letterale delle due disposizioni, aveva ritenuto essere il procedimento svoltosi in anzi ad essa di competenza del Tribunale.

Senonché la cliente soccombente, evidentemente insoddisfatta, aveva richiesto giudizialmente al proprio (ormai ex) difensore non solo la restituzione dei compensi a lui corrisposti in via anticipata, ma altresì di essere rifusa per le somme che si era trovata a dover pagare alle proprie controparti, in ragione della soccombenza processuale. A giustificazione della propria domanda, oltre ad un presunto errore nell’applicazione delle norme processuali, essa aveva lamentato altresì il contegno non diligente del professionista, il quale troppo frettolosamente – a suo dire – le aveva consigliato di procedere con la proposizione del reclamo, non informandola del grave rischio di quasi certa soccombenza.

Incardinatosi il giudizio avanti il Tribunale adito, l’avvocato chiamato in causa aveva fatto presente che, sulla base vuoi del dato letterale delle norme processuali applicabili, vuoi dei  precedenti giurisprudenziali reperiti, i più recenti disponibili al momento della proposizione dell’impugnazione per conto dell’assistita, lo strumento processuale da lui scelto risultava essere quello più idoneo. Pertanto, non sussistendo nella fattispecie un’applicazione manifestamente erronea di disposizioni normativi, ed essendo il rigetto del reclamo dovuto unicamente ad una differente interpretazione delle disposizioni medesime, egli (in realtà il professionista che, a sua volta, lo assisteva nel contenzioso) concludeva per la non sussistenza di negligenza professionale sanzionabile. Quanto poi alla presunta, eccessiva fretta dimostrata del promuovere l’azione giudiziale, il professionista evidenziava come, informata comunque e debitamente la sua (allora) assistita dell’obbiettiva difficoltà della questione, la domanda avrebbe avuto buone possibilità di successo, sulla base della ricostruzione dei fatti che la patrocinata gli aveva fornito con dovizia di particolari; ricostruzione della cui bontà egli, al momento dell’assunzione dell’incarico, non aveva motivo di dubitare.

Questo l’antefatto. Orbene, il Tribunale di Milano, decidendo la causa senza necessità di assumere prove testimoniali, ritenendo invece che la stessa potesse definirsi in base alla documentazione allegata dalle parti, ha rigettato la domanda proposta dalla ex cliente insoddisfatta, condannando quest’ultima a rifondere all’ex avvocato le spese legali sostenute. A motivo delle proprie conclusioni, sotto il primo dei due aspetti, quello che qui interessa, il giudice monocratico milanese ha posto la consolidata giurisprudenza in materia di responsabilità per negligenza dell’avvocato nell’esecuzione del proprio mandato. Tale orientamento si fonda sui seguenti presupposti: 1) l’obbligazione assunta dal legale è quella di prestare la propria opera in favore del cliente per il raggiungimento del risultato desiderato MA NON ANCHE QUELLA DI CONSEGUIRLO; 2) la valutazione della condotta professionale dell’avvocato va valutata con il criterio “speciale” e meno rigoroso rispetto a quello ordinario (diligenza del buon padre di famiglia), indicato dall’art. 1176, comma 2, C.C. (e, cioè, tenendo conto della natura dell’oggetto dell’attività svolta), ossia col criterio della diligenza mediamente dovuta da un soggetto che opera nel medesimo settore; 3) sussiste negligenza grave, e quindi, giuridicamente rilevante in punto responsabilità, solo in caso di manifesta violazione di una norma di legge nel compimento di un atto esecutivo dell’incarico conferito, E NON ANCHE quando, come nel caso esaminato, tenuto conto di una valutazione da compiere con riferimento al momento in cui l’atto è stato compiuto, il mancato raggiungimento del risultato sperato sia dovuto semplicemente alla diversa soluzione che che il giudice adito abbia dato a questioni giuridiche nascenti da diverse intepretazioni di uno stesso dato normativo, entrambe in astratto plausibili. In breve, seconto il Tribunale di Milano, se l’avvocato fonda le proprie conclusioni su di una determinata interpretazione delle norme giuridiche sostanziali o processuali applicabili, tanto più se supportate comunque da precedenti giurisprudenziali in quel momento recenti ed a lui favorevoli, nulla può venirgli rimproverato se poi l’ufficio giudiziario al quale si rivolge per conto e nell’interesse del suo assistito, ritiene di dover aderire ad una diversa lettura delle medesime norme e quindi, di rigettare le sue istanze. Questo perché egli è obbligato solo a svolgere il proprio mandato secondo scienza e coscienza, non anche ad ottenere il risultato favorevole, auspicato dal proprio cliente.

Queste considerazioni valgano soprattutto quale informazione per quei comuni cittadini che, un po’ troppo spesso aizzati da sedicenti organizzazioni che si autoproclamano loro tutori e da “colleghi” senza scrupoli, finiscono per sfogare con troppa leggerezza le loro frustrazioni giudiziali, scaricando la responsabilità di rovesci processuali su incolpevoli professionisti.

La cautela nella valutazioni fattuali e giuridiche circa le proprie vicende e, magari, la disponibilità a ricercare soluzioni conciliative si rivelano, in questo settore, quanto mai opportune. 

Avv. Alessandro Cofano

POTERI PRESIDENZIALI NELLA NOMINA DELL’ESECUTIVO

L’argomento dei poteri del Presidente della Repubblica nella nomina dei componenti del consiglio dei ministri è tornato prepotentemente d’attualità in occasione della nascita dell’esecutivo attualmente in carica.

Tuttavia, non è un tema nuovo nella storia politica e costituzionale del Paese. Casi di frizioni fra le maggioranze politico parlamentari ed i loro esponenti, da un lato, e l’orientamento del Capo dello Stato in carica, dall’altro, circa la scelta di questo o quel soggetto cui assegnare la titolarità di un dicastero, sono stati più frequenti di quanto si pensi, fin dall’esordio del nostro sistema costituzionale. Per affrontare la materia, è bene partire, come sempre, dal dato normativo.

Un punto fermo, sotto questo aspetto, emerge chiaramente dalla lettura della nostra Carta fondamentale e va tenuto ben presente: in Italia non esiste sotto alcuna forma l’elezione diretta né del presidente del consiglio, né del governo nel suo complesso. Motivo per cui, a dispetto dei proclami pressoché quotidiani e trasversali agli schieramenti, da parte di questo o quell’esponente politico, qualsiasi lamentela circa l’esistenza in Italia di un governo “non eletto dal popolo” in un determinato periodo storico è costituzionalmente priva di senso. Avrà forse una sua logica da un punto di vista di una valutazione in senso lato “politica” circa determinate scelte operate, per lo più dai presidenti della repubblica succedutisi nel tempo, al momento della formazione delle compagini governative; ma, ed è quello che conta in questa sede, non ha significato alcuno sul piano strettamente normativo. E vediamo ora perchè.

L’Italia è, in linea di massima, una repubblica di tipo parlamentare. I cittadini italiani eleggono unicamente i propri rappresentanti in Parlamento, organo nel quale eminentemente risiede, salve pochissime eccezioni assai ben regolamentate, il potere legislativo. Per ciò che riguarda la nomina dei componenti dell’organo esecutivo (il Governo), l’art. 92 della Costituzione prevede che esso sia formato dal presidente del consiglio e dai ministri, che insieme concorrono a dar vita al consiglio dei ministri (comma 1°), e che spetta al Capo dello Stato la nomina del presidente del consiglio e, su proposta di quest’ultimo, dei singoli ministri (comma 2°). Nell’esercizio di tale potere, il Presidente della Repubblica non è in alcun modo giuridicamente vincolato sul piano del diritto formale da alcun criterio prestabilito. Egli dovrà compiere la propria scelta unicamente tenendo conto del fatto che, alla luce del principio costituzionale secondo il quale il governo, per entrare nella pienezza dei propri poteri, deve ottenere la fiducia di entrambi i rami del Parlamento (Cost., art. 94, comma 1°), la persona cui conferire l’incarico di formare il governo dovrà essere individuata in colui che, di fatto, abbia maggiori possibilità di ottenere tale risultato e ciò indipendentemente da come si siano delineati i diversi schieramenti politici prima e dopo le elezioni per le due camere.

In altri termini, se agli elettori si sono presentati più partiti, o più alleanze di partiti, reciprocamente alternativi, sarà ovviamente assai probabile che il partito o la coalizione che abbia ottenuto in parlamento la maggioranza assoluta dei seggi nei due rami del Parlamento esprima nel suo seno la personalità che verrà designata dal Capo dello Stato come presidente del consiglio in quanto più idonea in quel frangente ad ottenere un voto di fiducia favorevole tanto alla Camera, quanto al Senato. Tuttavia, ove in seguito quella maggioranza si dovesse sfaldare a causa di divergenze interne, privando l’esecutivo in carica di quella fiducia inizialmente accordatagli, nessun ostacolo di natura giudirico-costituzionale impedisce al Presidente della Repubblica di verificare se in seno al Parlamento si possa formare una nuova maggioranza di deputati e senatori disposti a accordare sostenere un governo anche di composizione totalmente differente.

Analogamente, per come configurato nell’ambito della vigente Costituzione, il potere di nomina dei singoli ministri, in ultima analisi, spetta sempre al Capo dello Stato, sulle cui determinazioni il presidente del consiglio può esercitare un’influenza certamente rilevante sul piano politico, con il proprio potere/dovere di “proporre” i nominativi dei potenziali componenti della compagnine governativa, ma che non è in alcun modo vincolante per la scelta finale.

Come si è detto, sono più frequenti di quanto si pensi gli episodi in cui persone, anche di prestigio, date per assegnatari certi della titolarità di un ministero, in quanto presenti nella lista presentata di volta in volta da diversi presidenti del consiglio incaricati al Capo dello Stato, poi escluse dalla “squadra” di governo per l’opposizione di quest’ultimo. Come pure, al contrario, vi è un caso, risalente alla presidenza Einaudi (1948 – 1955), in cui un ministro, la cui nomina era stata fortemente osteggiata dal maggior partito di maggioranza dell’epoca, addirittura in contrasto con la scelta del presidente del consiglio incaricato che invece lo sosteneva, il quale fu confermato nel posto che il capo del governo aveva proposto, proprio per la decisa difesa delle proprie prerogative da parte dell’allora Capo dello Stato.

Venendo alla cronaca più recente, all’indomani delle elezioni del 2001 la scelta del titolare del ministero degli affari esteri fu sostanzialmente imposta dal Quirinale al “premier” incaricato, nella persona dell’ambasciatore Renato Ruggiero. Pochi anni prima (era la fine del 1994), l’assetto del “governo Dini”, succeduto al precedente, travolto dal collasso della coalizione parlamentare che lo sosteneva, fu totalmente ridisegnato a causa dell’atteggiamento intransigente dell’allora presidente Scalfaro, non senza che ciò provocasse aspre polemiche.

Da ultimo, ed è cronaca di questi giorni, il presidente del consiglio in carica da neanche venti giorni, dopo aver ricevuto una prima volta l’incarico di formare il governo, si è trovato nella situazione di dover rimettere il mandato a causa del “veto” del Quirinale sulla persona di un prestigioso “tecnico” della materia, proposto come titolare del ministero dell’economia. La “crisi”, com’è noto, che rischiava di riportare il Paese a nuove elezioni politiche a distanza di pochi mesi dalle precedenti, è poi rientrata con lo spostamento del “tecnico” in questione ad un altri dicastero ed alla sua sostituzione con altro esperto del settore. La vicenda ha rischiato, peraltro, di portare ad un vero e proprio “strappo” istituzionale, atteso che da più parti politiche le critiche all’operato dell’attuale presidente della repubblica si erano spinte fino al punto di prospettare seriamente la possibilità di una sua messa in stato d’accusa, in applicazione del comma 2° dell’art. 90 della Costituzione.

In realtà, a ben vedere, la formulazione (volutamente) generica e, quindi, assai “elastica” sul piano interpretativo, circa i poteri presidenziali di nomina dei componenti del governo, come poc’anzi illustrato, non pare poter supportare conclusioni così drastiche, come invece sostenuto da alcuni leader politici (ai quali, oltre alla moderazione nei termini che è sempre opportuno coltivare, sarebbe opportuno suggerire anche la lettura di un buon manuale base di diritto costituzionale, vista la delicatezza del ruolo ricoperto e l’inevitabile, conseguente esposizione mediatica). Ciò nondimento, è innegabile che, differentemente da quanto avvenuto fino ad ora in situazioni analoghe, l’attuale presidente della repubblica non si sia limitato a porre le proprie obbiezioni nella sedi riservata e fisioligicamente a ciò deputata (il colloquio che, secondo prassi, ha luogo al momento della presentazione della lista dei ministri fra il presidente incaricato e, appunto, il Capo dello Stato), ritenendo invece di comunicare pubblicamente la propria scelta e di motivarla, altrettanto pubblicamente, con ragioni di carattere esplicitamente politico (nella fattispecie, si è riferito alle opinioni assai critiche, espresse in tempi più o meno recenti dal “ministro in pectore”, considerate fonte di potenziale minaccia per la sicurezza dei risparmi dei cittadini).

Orbene è evidente che, pur non prefigurando alcuna violazione formale, un simile atteggiamento, nel suo complesso, possa prestarsi a critiche di natura “politica” e che, obbiettivamente, esso si sia posto davvero al limite estremo del dettato della nostra Carta fondamentale, la quale ha subito – e non si tratta ahimè della prima volta – una torsione quasi traumatica, che ne ha evidenziato tutti i limiti, derivanti dall’essere stata redatta con l’esigenza, indubbiamente attuale all’epoca, di evitare in tutti i modi che il potere si potesse concentrare troppo in uno solo dei vari poteri dello Stato. Ciò che dovrebbe far riflettere l’intero mondo politico (ed i cittadini elettori) sulla necessità di apportare al nostro ordinamento alcune sostanziali modifiche per rimetterlo al passo coi tempi pur conservando un armonico ed indispensabile sistema di “pesi e contrappesi” e, quindi le irrinunciabili garanzie proprie delle moderne democrazie occidentali.

 

Avv. Alessandro Cofano

AVVOCATI “STABILITI” CON TITOLO ACQUISITO IN SPAGNA: UNA STRETTA DECISIVA?

Novità per l’accesso alla professione forense da parte dei cittadini italiani che hanno acquisito il titolo di “abogado” in Spagna. Con provvedimento del 12 maggio 2017 il Ministero della Giustizia ha respinto la richiesta di riconoscimento del titolo di “abogado” avanzata da 332 aspiranti. La nota è stata trasmessa al Consiglio Nazionale Forense il successivo 15 maggio e, per il tramite di quest’ultimo, a tutti i Presidenti degli Ordini Forensi territoriali, con invito tanto a non procedere all’iscrizione nei rispettivi albi degli avvocati “stabiliti” interessati dai provvedimenti di rigetto, quanto a disporre la cancellazione di quelle già accordate, qualora la richiesta volta all’ottenimento del titolo professionale in Spagna fosse stata richiesta prima del 31.10.2011.

Ma cerchiamo di comprendere meglio, con una breve premessa. In forza della direttiva UE in materia di “diritto di stabilimento” del professionista comunitario, risalente al 2001, i cittadini italiani che abbiano conseguito titolo di abilitazione all’esercizio della professione forense in uno stato dell’Unione, possono chiederne l’omologazione al Ministero della Giustizia, per poi essere iscritti in uno speciale albo tenuto presso gli ordini territoriali, denominato albo speciale degli avvocati c.d. “stabiliti”. Detta iscrizione consente a questi soggetti di svolgere senza limiti attività di consulenza ed assistenza stragiudiziale nel territorio dello stato mentre, per quel che concerne l’assistenza giudiziale (civile e penale), gli avvocati stabiliti (che non possono fregiarsi del titolo di “avvocato” tout court), per i primi tre anni dall’iscrizione devono operare “d’intesa con un un avvocato italiano”. Decorso tale periodo, lo “stabilito” può chiedere di essere iscritto nell’albo ordinario, divenendo avvocato c.d. “integrato” e può quindi esercitare attività forense senza limiti, oltre a poter utilizzare nei propri rapporti il titolo di “avvocato”. In alternativa al percorso triennale qui illustrato, l’avvocato stabilito può ottenere il definitivo, pieno riconoscimento del proprio titolo, mediante il superamento di un esame attidudinale.

Orbene, secondo la nota ministeriale, tutti i laureati in Italia che abbiano tentato di conseguire in Spagna il titolo di “abogado” – previa omologazione della laurea ottenuta in Italia successivamente al 30 ottobre 2011 – non avrebbero potuto ottenere legittimamente detto titolo e, di conseguenza, neppure il diritto a conseguirne il riconoscimento in Italia ai fini dell’iscrizione negli albi territoriali degli “avvocati stabiliti”, a meno che non avessero in precedenza frequentato in Spagna un master specifico e non avessero sostenuto in quel Paese l’esame di stato.

A tale conclusione è giunto il nostro Ministero dopo che ad esso sono giunte informative dettagliate in tal senso, provenienti dalle autorità iberiche (il Ministero de Justicia). In breve, i laureati italiani che, successivamente al 30 ottobre 2011, hanno presentanto domanda per l’omologazione del  titolo di studio ai fini dell’iscrizione al “Collegio degli Abogados”, non potrebbero più ottenere detta iscrizione qualora non avessero precedentemente frequentato in Spagna apposito master e, successivamente, superato l’esame di stato. Le iscrizioni al suddetto Collegio Abogados eseguite dopo tale data in carenza dei due requisiti appena indicati, sempre secondo il Ministero della Giustizia spagnolo, sono da considerarsi irregolari. La conseguenza, secondo la nota dell’omologo italiano sarebbe quella del sopravvenuto venir meno per i soggetti interessati dei requisiti per ottenere l’iscrizione nell’apposito albo speciale tenuto presso ogni ordine forense territoriale.

Il provvedimento ha immediatamente suscitato un vespaio di polemiche e, con ogni probabilità, darà origine ad un numero cospicuo di contenziosi avanti gli organi giurisdizionali competenti. Esso, infatti si fonda sull’intepretazione e l’applicazione della normativa c.d. “transitoria” della nuova disciplina introdotta dallo stato ispanico per l’acquisizione del titolo di avvocato da parte di cittadini stranieri (L. n° 34/2006), che ha individuato nel Ministero della Giustizia (in luogo di quello dell’Educazione) l’organo competente all’omologazione dei titoli accademici conseguiti all’estero ed ha, per l’appunto, fissato i nuovi requisiti affinchè detta omologazione sia ottenuta.

Si vedranno in seguito quali potranno essere in concreto gli effetti di quanto deciso in sede ministeriale. E’ evidente fin d’ora, comunque, che, qualora la legittimità dell’operato del Guardasigilli dovesse essere riconosciuta, sarebbero in diverse migliaia gli “avvocati stabiliti” che si vedrebbero notificare un provvedimento di cancellazione amministrativa da parte dei rispettivi ordini territoriali di appartenenza.

CONSUMATORE E CLAUSOLE VESSATORIE

PROBLEMI PER LE AZIENDE ED OPPORTUNITA’ PER IL CONSUMATORE.

A partire dal 1996, il Legislatore italiano, in attuazione di precetti contenuti in alcune direttive comunitarie via via emanate, ha introdotto nell’ordinamento un complesso articolato di norme volte a garantire specifiche tutele giuridiche a vantaggio del consumatore, nei rapporti commerciali che quest’ultimo abbia ad intrattenere con gli imprenditori professionali.

Il quadro della disciplina precedente i primi interventi della metà degli anni ’90 consisteva sostanzialmente nella normativa del Codice Civile in tema di condizioni generali di contratto e di contratti conclusi per mezzo di moduli o formulari (artt. 1341 e 1342), nonché – limitatamente a quella tipologia negoziale – nelle disposizioni in materia di garanzia per vizi del bene acquistato nel contratto di compravendita (artt. 1489 – 1495).

In particolare, sotto il primo aspetto, l’art. 1341 contemplava le ipotesi di tutti quei contratti le cui clausole fossero state predisposte da un soggetto (solitamente un imprenditore) in modo unilaterale ed uniforme, al fine di regolare un numero indefinito di rapporti negoziali; clausole che, in quanto non oggetto di previa trattativa, l’altro contraente non avrebbe potuto far altro che accettare in toto, qualora avesse voluto effettivamente concludere l’accordo (da ciò la denominazione dottrinale per tali figure di “contratti per adesione”).

E proprio al fine di assicurare un minimo di tutela per la posizione del contraente escluso in questi casi dall’elaborazione delle clausole contrattuali e posto, quindi, in una situazione di oggettiva “debolezza” nei confronti dell’altro, il Codice Civile aveva stabilito, quale condizione per l’operatività di alcune di esse, che il soggetto obbligato gioco forza ad accettarle dovesse non solo essere messo, per lo meno in astratto, nelle condizioni di conoscerle e di evitare così spiacevoli “sorprese”, ma anche di approvarle in modo specifico, esprimendo in ordine ad esse uno esplicito consenso “ad hoc”.

Delle clausole soggette a siffatta disciplina (che la dottrina definiva “vessatorie”) lo stesso articolo forniva un elenco, ritenuto dalla prassi giurisprudenziale tassativo, annoverando al suo interno ipotesi di limitazioni di responsabilità a vantaggio della controparte predisponente, ovvero – sempre a favore di quest’ultima – facoltà di recedere dal contratto o sospenderne l’esecuzione, nonché, a sfavore del soggetto meramente aderente ipotesi di decadenze dall’esercizio di talune facoltà o diritti, o dalla possibilità di opporre eccezioni, restrizioni della sua libertà contrattuale verso terzi, rinnovazione tacita del periodo di efficacia del contratto (si pensi, ad esempio, in quest’ultimo caso, a talune polizze assicurative), o infine clausole che limitassero in certo modo o escludessero totalmente la possibilità di rivolgersi alla giustizia statale. Il successivo art. 1342, invece, si limitava a sancire che le clausole che fossero state aggiunte a quelle contenute in un modulo o formulario prestampato ed eventualmente con queste ultime incompatibili avrebbero dovuto considerarsi prevalenti ed applicabili in luogo di quelle esistenti sul modulo, ancorché le stesse non fossero state cancellate.

In ogni caso, salva l’applicazione delle regole poc’anzi esposte in tema di contratti “per adesione”. Senonché, la scarna disciplina codicistica si era rivelata con il tempo sempre più inadeguata, a causa del moltiplicarsi del numero e, soprattutto, della tipologia dei contratti conclusi mediante adesione a condizioni predisposte da soggetti, quasi sempre imprenditori, dotati di obbiettivo maggior potere negoziale, con altri, di regola semplici privati privi di conoscenze giuridiche, che a dette condizioni dovevano gioco forza sottostare (si pensi ai contratti bancari o assicurativi, ovvero a quelli di acquisto di beni di grande valore economico e, nel contempo, di notevole diffusione).

La tutela approntata per questi ultimi dall’ordinamento poteva essere facilmente aggirata con il noto sistema della c.d. “doppia firma”: il malcapitato consumatore, dopo aver apposto una prima sottoscrizione per prestare il proprio consenso al contratto appena stipulato nel suo complesso, veniva poi invitato – leggasi di fatto obbligato – ad apporne una seconda ad una sorta di formula standard, generalmente inserita in calce al testo dell’accordo, poco al di sotto della sua prima firma, con la quale dichiarava di aver letto e di approvare espressamente talune delle clausole contrattuali, il cui contenuto non era neppure riprodotto, se non in estrema sintesi o che, sovente, veniva semplicemente richiamato con l’indicazione del relativo numero d’ordine progressivo all’interno del testo del contratto.

Tale pressi, in concreto, poneva soprattutto il privato consumatore nell’impossibilità di conoscere realmente il contenuto di clausole la cui applicazione avrebbe comportato, in ipotesi, gravi limitazioni, o addirittura rinunce preventive, all’esercizio di importanti diritti garantiti in suo favore dalla legge. Il quadro qui delineato iniziò a mutare con l’introduzione della prima disciplina specifica sui “Contratti del consumatore”, emanata con la L. 6.02.1996 n° 52 che aggiunse al Codice Civile gli artt. da 1469 bis a 1469 sexies.

Il Legislatore del ’96 articolò un complesso sistema di individuazione di determinate tipologie di clausole, denominate “abusive” che, ove contenute in un contratto concluso fra consumatore ed un imprenditore professionale, sarebbero state totalmente o parzialmente considerate inoperanti.

Rese infine possibile, per la prima volta nel nostro ordinamento, l’esperimento di un’apposita azione inibitoria, volta ad impedire all’imprenditore stesso l’ulteriore utilizzo delle condizioni contrattuali che fossero state oggetto di siffatta censura giudiziale di abusività. Il complesso normativo in esame transitò, con qualche modifica, nel D. Lgs. 6 settembre 2005 n° 206, denominato informalmente “Codice di Consumo”, nel quale erano stati raccolti anche tutti gli altri interventi legislativi succedutisi negli anni precedenti e riguardanti i diversi rapporti contrattuali, nei quali i cittadini consumatori potevano essere coinvolti.

Ed è a tale testo che ancora si fa riferimento per la trattazione della materia di cui oggi ci si occupa. La parte concernente le clausole abusive, denominate dal citato decreto “vessatorie”, comprende gli artt. da 33 a 38. Il primo di essi definisce proprio il concetto generale di “clausola vessatoria”, per poi elencare alcune tipologie di condizioni negoziali che, salvo prova contraria fornita in giudizio (a carico del titolare dell’impresa o attività), devono presumersi rientranti in tale categoria, a prescindere dalla buona fede o meno delle parti.

L’art. 33, comma 1, afferma quindi che si considerano vessatorie nel contratto concluso tra consumatore ed imprenditore professionale (in questo senso, assai ampio, deve intendersi l’espressione “professionista” usata dal Codice di Consumo) quelle che, nonostante buona fede appunto, “determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”.

Il giudice dovrà pertanto accertare nel corso del processo, a richiesta del consumatore interessato, se una o più clausole contenute nel contratto da lui stipulato con l’imprenditore professionale determinino un eccessivo sbilanciamento tra le facoltà attribuitegli, da una parte, e gli obblighi giuridici posti a suo carico, dall’altra: se, cioè, i diritti che egli potrà legittimamente far valere verso l’altra parte sono eccessivamente limitati in rapporto ai doveri cui andrà soggetto nei confronti di essa (o, per converso, se i diritti che l’imprenditore potrà esercitare nei confronti del consumatore saranno troppo estesi, in rapporto agli obblighi cui l’imprenditore medesimo sarà tenuto nei riguardi del privato consumatore).

Il secondo comma dell’art. 33, come detto, elenca numerose ipotesi in qui tale squilibrio di posizioni, e la conseguente vessatorietà della clausola, è presunto fino a prova contraria. L’elenco è piuttosto lungo e non è questa la sede per trattare, una per una, le varie fattispecie previste. E’ bene, al contrario, evidenziare alcuni punti fermi, che distinguono la disciplina in esame dalla “vecchia” normativa codicistica di cui agli artt. 1341 e 1342, che – sia detto per inciso – rimane comunque applicabile quando nessuna delle parti in causa operi in qualità di consumatore, secondo la definizione che di tale figura è data dallo stesso D. Lgs. N° 206/2005.

In primo luogo, gli artt. 33 ss. del Decreto citato si applicano anche a quei contratti che non siano stati stipulati mediante la mera adesione del consumatore a schemi/moduli unilateralmente predisposti dall’imprenditore; secondariamente, tra le tipologie di clausole che il Legislatore del 2005 considera presuntivamente troppo onerose ne sono comprese alcune che, sotto la vigenza della precedente normativa del Codice Civile, potevano considerarsi efficaci, seppure a condizione di venire espressamente approvate dal consumatore (con il sistema della “doppia sottoscrizione” cui si è fatto cenno in precedenza).

Un esempio: oggi l’imprenditore che inserisca nel contratto da lui stipulato con il consumatore una clausola che designi come giudice competente quello nel cui ambito territoriale si trovi la sede della sua azienda, e non invece, il giudice nella cui circoscrizione si trovi il comune di residenza del consumatore, se diverso, si troverà di fronte – ove si serva di questa pattuizione in un contenzioso sorto con quest’ultimo – ad una probabile pronuncia di inefficacia della clausola (ammissibile, invece, in via generale ai sensi e nei limiti dell’art. 1341, comma 2 c.c.); l’ordinamento ha ritenuto, invero, iniquamente gravoso il fatto che, per le controversie in cui fosse coinvolto, il privato consumatore possa essere costretto a recarsi davanti un ufficio giudiziario lontano dal suo domicilio per proporre le proprie domande o per rispondere di proprie inadempienze nelle vertenze sorte con il professionista, con aggravio di costi ingiusto; ciò, attesa la sua posizione, ritenuta, sulla carta per lo meno, di minore disponibilità di mezzi anche economici rispetto a quest’ultimo (art. 33, comma 2, lett. u)). Ancora, sono a rischio grave di pronuncia d’inefficacia quelle clausole (che, lo si ripete, sono soggette al solo onere dell’approvazione specifica nei contratti stipulati tra “non consumatori”) le quali sanciscano a carico del consumatore decadenze, limitazioni alla possibilità di opporre eccezioni, limiti alla possibilità di produrre in giudizio prove che dimostrino le proprie tesi, o limiti alla possibilità di concludere contratti con altri soggetti (art. 33, comma 2, lett. t)). Norme specifiche sul punto sono poi stabilite per i rapporti negoziali bancari e per quelli di natura, finanziaria ed assicurativa.

Ampio e di gran rilevanza è, infine, il potere attribuito alle associazioni rappresentative di categoria (sia di imprese e professionisti, che di consumatori), nonché alle Camere di Commercio, di esperire delle vere e proprie azioni collettive nei confronti dell’imprenditore che utilizzi nei propri rapporti condizioni generali di contratto ritenute abusive, al fine di inibirgli ricorso a queste ultime (art. 37 D. Lgs. n° 206/2005).

Le premesse sopra svolte e gli esempi qui sopra riportati sono utili ad introdurre il punto essenziale della questione che si vuole trattare. E cioè che, nonostante la normativa citata sia in vigore ormai da diversi anni e a dispetto dei numerosi appelli delle varie associazioni di categoria, troppe volte i privati consumatori si dimostrano inconsapevoli della tutela giuridica indubbiamente rafforzata della quale possono giovarsi nei loro rapporti con professionisti ed imprese e rinuncino a farle valere nei casi che li riguardino, pur potendolo fare. Dall’altro lato, troppe volte questi ultimi sembrano ignorare i nuovi vincoli introdotti dal D. L.gs. n° 206/2005 al loro potere di imporre condizioni eccessivamente onerose per la controparte consumatrice, continuando purtroppo a predisporre schemi contrattali ormai obsoleti, con grave rischio di trovarsi coinvolti in vertenze giudiziali che, lungi dall’avere un esito per essi favorevole, terminano – nella migliore delle ipotesi – con pesanti condanne al pagamento delle spese legali avversarie.

Da qualunque parte si voglia guardare il problema, appare essenziale, tanto per i consumatori, quanto per imprenditori e professionisti, il poter contare su adeguata consulenza legale, tanto più in un mondo, come quello odierno, in cui i rapporti economici sono regolati spesso da accordi complessi ed articolati, dal contenuto non sempre agevolmente comprensibile e, per questo motivo, irti di possibili insidie e trabocchetti. Le recenti e, per certi aspetti, drammatiche vicende dei contratti finanziari conclusi da malcapitati risparmiatori, rimasti vittime di cospicue perdite patrimoniali, costituiscano sotto questo aspetto un monito duraturo.

Avv. Alessandro Cofano Studio Legale

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Debiti, come eliminarli

Per i debiti sembrava arrivata la soluzione, una delle soluzioni “salva suicidi” ed invece nella pratica la definirei “ritarda suicidi”.

La Legge 3/2012, promulgata per cercare una soluzione alle migliaia di situazioni di indebitamento dovuto alla crisi, evidenzia la sua poca utilità. I Tribunali nominano professionisti che ancora “brancolano nel buio” e con la loro inesperienza fanno buttare ulteriori soldi ai malcapitati speranzosi “sovraindebitati”.

Agenzie misteriose di professionisti che chiedono soldi anticipati per valutare il singolo caso, ma se uno è sovraindebitato dove trova i soldi ?

Lo Stato ci mette del suo chiedendo per l’ iscrizione a ruolo non una volta ma bensì DUE il versamento del contributo unificato.

In conclusione la faranno da padroni ancora le banche che, favorite da una recente Legge, potranno impossessarsi molto rapidamente e con pochissimi costi delle case, faticosamente acquistate, dei prossimi candidati al suicidio.

I debiti eccessivi sono dovuti, nella maggior parte dei casi, non certo al fatto di avere le mani bucate, bensì a situazioni non volute dal debitore, perdita del lavoro, malattia, ecc.

Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha specificato che anche i titolari d’ impresa rientrano in taluni casi nella categoria dei “consumatori”, potendo pertanto beneficiare delle possibilità della succitata Legge.

Sono benvenuti i commenti via mail sul tema.

Recente sentenza della Cassazione a questo LINK

Sergio Cartabia

sergio.cartabia@email.it