L’argomento dei poteri del Presidente della Repubblica nella nomina dei componenti del consiglio dei ministri è tornato prepotentemente d’attualità in occasione della nascita dell’esecutivo attualmente in carica.
Tuttavia, non è un tema nuovo nella storia politica e costituzionale del Paese. Casi di frizioni fra le maggioranze politico parlamentari ed i loro esponenti, da un lato, e l’orientamento del Capo dello Stato in carica, dall’altro, circa la scelta di questo o quel soggetto cui assegnare la titolarità di un dicastero, sono stati più frequenti di quanto si pensi, fin dall’esordio del nostro sistema costituzionale. Per affrontare la materia, è bene partire, come sempre, dal dato normativo.
Un punto fermo, sotto questo aspetto, emerge chiaramente dalla lettura della nostra Carta fondamentale e va tenuto ben presente: in Italia non esiste sotto alcuna forma l’elezione diretta né del presidente del consiglio, né del governo nel suo complesso. Motivo per cui, a dispetto dei proclami pressoché quotidiani e trasversali agli schieramenti, da parte di questo o quell’esponente politico, qualsiasi lamentela circa l’esistenza in Italia di un governo “non eletto dal popolo” in un determinato periodo storico è costituzionalmente priva di senso. Avrà forse una sua logica da un punto di vista di una valutazione in senso lato “politica” circa determinate scelte operate, per lo più dai presidenti della repubblica succedutisi nel tempo, al momento della formazione delle compagini governative; ma, ed è quello che conta in questa sede, non ha significato alcuno sul piano strettamente normativo. E vediamo ora perchè.
L’Italia è, in linea di massima, una repubblica di tipo parlamentare. I cittadini italiani eleggono unicamente i propri rappresentanti in Parlamento, organo nel quale eminentemente risiede, salve pochissime eccezioni assai ben regolamentate, il potere legislativo. Per ciò che riguarda la nomina dei componenti dell’organo esecutivo (il Governo), l’art. 92 della Costituzione prevede che esso sia formato dal presidente del consiglio e dai ministri, che insieme concorrono a dar vita al consiglio dei ministri (comma 1°), e che spetta al Capo dello Stato la nomina del presidente del consiglio e, su proposta di quest’ultimo, dei singoli ministri (comma 2°). Nell’esercizio di tale potere, il Presidente della Repubblica non è in alcun modo giuridicamente vincolato sul piano del diritto formale da alcun criterio prestabilito. Egli dovrà compiere la propria scelta unicamente tenendo conto del fatto che, alla luce del principio costituzionale secondo il quale il governo, per entrare nella pienezza dei propri poteri, deve ottenere la fiducia di entrambi i rami del Parlamento (Cost., art. 94, comma 1°), la persona cui conferire l’incarico di formare il governo dovrà essere individuata in colui che, di fatto, abbia maggiori possibilità di ottenere tale risultato e ciò indipendentemente da come si siano delineati i diversi schieramenti politici prima e dopo le elezioni per le due camere.
In altri termini, se agli elettori si sono presentati più partiti, o più alleanze di partiti, reciprocamente alternativi, sarà ovviamente assai probabile che il partito o la coalizione che abbia ottenuto in parlamento la maggioranza assoluta dei seggi nei due rami del Parlamento esprima nel suo seno la personalità che verrà designata dal Capo dello Stato come presidente del consiglio in quanto più idonea in quel frangente ad ottenere un voto di fiducia favorevole tanto alla Camera, quanto al Senato. Tuttavia, ove in seguito quella maggioranza si dovesse sfaldare a causa di divergenze interne, privando l’esecutivo in carica di quella fiducia inizialmente accordatagli, nessun ostacolo di natura giudirico-costituzionale impedisce al Presidente della Repubblica di verificare se in seno al Parlamento si possa formare una nuova maggioranza di deputati e senatori disposti a accordare sostenere un governo anche di composizione totalmente differente.
Analogamente, per come configurato nell’ambito della vigente Costituzione, il potere di nomina dei singoli ministri, in ultima analisi, spetta sempre al Capo dello Stato, sulle cui determinazioni il presidente del consiglio può esercitare un’influenza certamente rilevante sul piano politico, con il proprio potere/dovere di “proporre” i nominativi dei potenziali componenti della compagnine governativa, ma che non è in alcun modo vincolante per la scelta finale.
Come si è detto, sono più frequenti di quanto si pensi gli episodi in cui persone, anche di prestigio, date per assegnatari certi della titolarità di un ministero, in quanto presenti nella lista presentata di volta in volta da diversi presidenti del consiglio incaricati al Capo dello Stato, poi escluse dalla “squadra” di governo per l’opposizione di quest’ultimo. Come pure, al contrario, vi è un caso, risalente alla presidenza Einaudi (1948 – 1955), in cui un ministro, la cui nomina era stata fortemente osteggiata dal maggior partito di maggioranza dell’epoca, addirittura in contrasto con la scelta del presidente del consiglio incaricato che invece lo sosteneva, il quale fu confermato nel posto che il capo del governo aveva proposto, proprio per la decisa difesa delle proprie prerogative da parte dell’allora Capo dello Stato.
Venendo alla cronaca più recente, all’indomani delle elezioni del 2001 la scelta del titolare del ministero degli affari esteri fu sostanzialmente imposta dal Quirinale al “premier” incaricato, nella persona dell’ambasciatore Renato Ruggiero. Pochi anni prima (era la fine del 1994), l’assetto del “governo Dini”, succeduto al precedente, travolto dal collasso della coalizione parlamentare che lo sosteneva, fu totalmente ridisegnato a causa dell’atteggiamento intransigente dell’allora presidente Scalfaro, non senza che ciò provocasse aspre polemiche.
Da ultimo, ed è cronaca di questi giorni, il presidente del consiglio in carica da neanche venti giorni, dopo aver ricevuto una prima volta l’incarico di formare il governo, si è trovato nella situazione di dover rimettere il mandato a causa del “veto” del Quirinale sulla persona di un prestigioso “tecnico” della materia, proposto come titolare del ministero dell’economia. La “crisi”, com’è noto, che rischiava di riportare il Paese a nuove elezioni politiche a distanza di pochi mesi dalle precedenti, è poi rientrata con lo spostamento del “tecnico” in questione ad un altri dicastero ed alla sua sostituzione con altro esperto del settore. La vicenda ha rischiato, peraltro, di portare ad un vero e proprio “strappo” istituzionale, atteso che da più parti politiche le critiche all’operato dell’attuale presidente della repubblica si erano spinte fino al punto di prospettare seriamente la possibilità di una sua messa in stato d’accusa, in applicazione del comma 2° dell’art. 90 della Costituzione.
In realtà, a ben vedere, la formulazione (volutamente) generica e, quindi, assai “elastica” sul piano interpretativo, circa i poteri presidenziali di nomina dei componenti del governo, come poc’anzi illustrato, non pare poter supportare conclusioni così drastiche, come invece sostenuto da alcuni leader politici (ai quali, oltre alla moderazione nei termini che è sempre opportuno coltivare, sarebbe opportuno suggerire anche la lettura di un buon manuale base di diritto costituzionale, vista la delicatezza del ruolo ricoperto e l’inevitabile, conseguente esposizione mediatica). Ciò nondimento, è innegabile che, differentemente da quanto avvenuto fino ad ora in situazioni analoghe, l’attuale presidente della repubblica non si sia limitato a porre le proprie obbiezioni nella sedi riservata e fisioligicamente a ciò deputata (il colloquio che, secondo prassi, ha luogo al momento della presentazione della lista dei ministri fra il presidente incaricato e, appunto, il Capo dello Stato), ritenendo invece di comunicare pubblicamente la propria scelta e di motivarla, altrettanto pubblicamente, con ragioni di carattere esplicitamente politico (nella fattispecie, si è riferito alle opinioni assai critiche, espresse in tempi più o meno recenti dal “ministro in pectore”, considerate fonte di potenziale minaccia per la sicurezza dei risparmi dei cittadini).
Orbene è evidente che, pur non prefigurando alcuna violazione formale, un simile atteggiamento, nel suo complesso, possa prestarsi a critiche di natura “politica” e che, obbiettivamente, esso si sia posto davvero al limite estremo del dettato della nostra Carta fondamentale, la quale ha subito – e non si tratta ahimè della prima volta – una torsione quasi traumatica, che ne ha evidenziato tutti i limiti, derivanti dall’essere stata redatta con l’esigenza, indubbiamente attuale all’epoca, di evitare in tutti i modi che il potere si potesse concentrare troppo in uno solo dei vari poteri dello Stato. Ciò che dovrebbe far riflettere l’intero mondo politico (ed i cittadini elettori) sulla necessità di apportare al nostro ordinamento alcune sostanziali modifiche per rimetterlo al passo coi tempi pur conservando un armonico ed indispensabile sistema di “pesi e contrappesi” e, quindi le irrinunciabili garanzie proprie delle moderne democrazie occidentali.
Avv. Alessandro Cofano