CONSUMATORE E CLAUSOLE VESSATORIE

PROBLEMI PER LE AZIENDE ED OPPORTUNITA’ PER IL CONSUMATORE.

A partire dal 1996, il Legislatore italiano, in attuazione di precetti contenuti in alcune direttive comunitarie via via emanate, ha introdotto nell’ordinamento un complesso articolato di norme volte a garantire specifiche tutele giuridiche a vantaggio del consumatore, nei rapporti commerciali che quest’ultimo abbia ad intrattenere con gli imprenditori professionali.

Il quadro della disciplina precedente i primi interventi della metà degli anni ’90 consisteva sostanzialmente nella normativa del Codice Civile in tema di condizioni generali di contratto e di contratti conclusi per mezzo di moduli o formulari (artt. 1341 e 1342), nonché – limitatamente a quella tipologia negoziale – nelle disposizioni in materia di garanzia per vizi del bene acquistato nel contratto di compravendita (artt. 1489 – 1495).

In particolare, sotto il primo aspetto, l’art. 1341 contemplava le ipotesi di tutti quei contratti le cui clausole fossero state predisposte da un soggetto (solitamente un imprenditore) in modo unilaterale ed uniforme, al fine di regolare un numero indefinito di rapporti negoziali; clausole che, in quanto non oggetto di previa trattativa, l’altro contraente non avrebbe potuto far altro che accettare in toto, qualora avesse voluto effettivamente concludere l’accordo (da ciò la denominazione dottrinale per tali figure di “contratti per adesione”).

E proprio al fine di assicurare un minimo di tutela per la posizione del contraente escluso in questi casi dall’elaborazione delle clausole contrattuali e posto, quindi, in una situazione di oggettiva “debolezza” nei confronti dell’altro, il Codice Civile aveva stabilito, quale condizione per l’operatività di alcune di esse, che il soggetto obbligato gioco forza ad accettarle dovesse non solo essere messo, per lo meno in astratto, nelle condizioni di conoscerle e di evitare così spiacevoli “sorprese”, ma anche di approvarle in modo specifico, esprimendo in ordine ad esse uno esplicito consenso “ad hoc”.

Delle clausole soggette a siffatta disciplina (che la dottrina definiva “vessatorie”) lo stesso articolo forniva un elenco, ritenuto dalla prassi giurisprudenziale tassativo, annoverando al suo interno ipotesi di limitazioni di responsabilità a vantaggio della controparte predisponente, ovvero – sempre a favore di quest’ultima – facoltà di recedere dal contratto o sospenderne l’esecuzione, nonché, a sfavore del soggetto meramente aderente ipotesi di decadenze dall’esercizio di talune facoltà o diritti, o dalla possibilità di opporre eccezioni, restrizioni della sua libertà contrattuale verso terzi, rinnovazione tacita del periodo di efficacia del contratto (si pensi, ad esempio, in quest’ultimo caso, a talune polizze assicurative), o infine clausole che limitassero in certo modo o escludessero totalmente la possibilità di rivolgersi alla giustizia statale. Il successivo art. 1342, invece, si limitava a sancire che le clausole che fossero state aggiunte a quelle contenute in un modulo o formulario prestampato ed eventualmente con queste ultime incompatibili avrebbero dovuto considerarsi prevalenti ed applicabili in luogo di quelle esistenti sul modulo, ancorché le stesse non fossero state cancellate.

In ogni caso, salva l’applicazione delle regole poc’anzi esposte in tema di contratti “per adesione”. Senonché, la scarna disciplina codicistica si era rivelata con il tempo sempre più inadeguata, a causa del moltiplicarsi del numero e, soprattutto, della tipologia dei contratti conclusi mediante adesione a condizioni predisposte da soggetti, quasi sempre imprenditori, dotati di obbiettivo maggior potere negoziale, con altri, di regola semplici privati privi di conoscenze giuridiche, che a dette condizioni dovevano gioco forza sottostare (si pensi ai contratti bancari o assicurativi, ovvero a quelli di acquisto di beni di grande valore economico e, nel contempo, di notevole diffusione).

La tutela approntata per questi ultimi dall’ordinamento poteva essere facilmente aggirata con il noto sistema della c.d. “doppia firma”: il malcapitato consumatore, dopo aver apposto una prima sottoscrizione per prestare il proprio consenso al contratto appena stipulato nel suo complesso, veniva poi invitato – leggasi di fatto obbligato – ad apporne una seconda ad una sorta di formula standard, generalmente inserita in calce al testo dell’accordo, poco al di sotto della sua prima firma, con la quale dichiarava di aver letto e di approvare espressamente talune delle clausole contrattuali, il cui contenuto non era neppure riprodotto, se non in estrema sintesi o che, sovente, veniva semplicemente richiamato con l’indicazione del relativo numero d’ordine progressivo all’interno del testo del contratto.

Tale pressi, in concreto, poneva soprattutto il privato consumatore nell’impossibilità di conoscere realmente il contenuto di clausole la cui applicazione avrebbe comportato, in ipotesi, gravi limitazioni, o addirittura rinunce preventive, all’esercizio di importanti diritti garantiti in suo favore dalla legge. Il quadro qui delineato iniziò a mutare con l’introduzione della prima disciplina specifica sui “Contratti del consumatore”, emanata con la L. 6.02.1996 n° 52 che aggiunse al Codice Civile gli artt. da 1469 bis a 1469 sexies.

Il Legislatore del ’96 articolò un complesso sistema di individuazione di determinate tipologie di clausole, denominate “abusive” che, ove contenute in un contratto concluso fra consumatore ed un imprenditore professionale, sarebbero state totalmente o parzialmente considerate inoperanti.

Rese infine possibile, per la prima volta nel nostro ordinamento, l’esperimento di un’apposita azione inibitoria, volta ad impedire all’imprenditore stesso l’ulteriore utilizzo delle condizioni contrattuali che fossero state oggetto di siffatta censura giudiziale di abusività. Il complesso normativo in esame transitò, con qualche modifica, nel D. Lgs. 6 settembre 2005 n° 206, denominato informalmente “Codice di Consumo”, nel quale erano stati raccolti anche tutti gli altri interventi legislativi succedutisi negli anni precedenti e riguardanti i diversi rapporti contrattuali, nei quali i cittadini consumatori potevano essere coinvolti.

Ed è a tale testo che ancora si fa riferimento per la trattazione della materia di cui oggi ci si occupa. La parte concernente le clausole abusive, denominate dal citato decreto “vessatorie”, comprende gli artt. da 33 a 38. Il primo di essi definisce proprio il concetto generale di “clausola vessatoria”, per poi elencare alcune tipologie di condizioni negoziali che, salvo prova contraria fornita in giudizio (a carico del titolare dell’impresa o attività), devono presumersi rientranti in tale categoria, a prescindere dalla buona fede o meno delle parti.

L’art. 33, comma 1, afferma quindi che si considerano vessatorie nel contratto concluso tra consumatore ed imprenditore professionale (in questo senso, assai ampio, deve intendersi l’espressione “professionista” usata dal Codice di Consumo) quelle che, nonostante buona fede appunto, “determinano un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”.

Il giudice dovrà pertanto accertare nel corso del processo, a richiesta del consumatore interessato, se una o più clausole contenute nel contratto da lui stipulato con l’imprenditore professionale determinino un eccessivo sbilanciamento tra le facoltà attribuitegli, da una parte, e gli obblighi giuridici posti a suo carico, dall’altra: se, cioè, i diritti che egli potrà legittimamente far valere verso l’altra parte sono eccessivamente limitati in rapporto ai doveri cui andrà soggetto nei confronti di essa (o, per converso, se i diritti che l’imprenditore potrà esercitare nei confronti del consumatore saranno troppo estesi, in rapporto agli obblighi cui l’imprenditore medesimo sarà tenuto nei riguardi del privato consumatore).

Il secondo comma dell’art. 33, come detto, elenca numerose ipotesi in qui tale squilibrio di posizioni, e la conseguente vessatorietà della clausola, è presunto fino a prova contraria. L’elenco è piuttosto lungo e non è questa la sede per trattare, una per una, le varie fattispecie previste. E’ bene, al contrario, evidenziare alcuni punti fermi, che distinguono la disciplina in esame dalla “vecchia” normativa codicistica di cui agli artt. 1341 e 1342, che – sia detto per inciso – rimane comunque applicabile quando nessuna delle parti in causa operi in qualità di consumatore, secondo la definizione che di tale figura è data dallo stesso D. Lgs. N° 206/2005.

In primo luogo, gli artt. 33 ss. del Decreto citato si applicano anche a quei contratti che non siano stati stipulati mediante la mera adesione del consumatore a schemi/moduli unilateralmente predisposti dall’imprenditore; secondariamente, tra le tipologie di clausole che il Legislatore del 2005 considera presuntivamente troppo onerose ne sono comprese alcune che, sotto la vigenza della precedente normativa del Codice Civile, potevano considerarsi efficaci, seppure a condizione di venire espressamente approvate dal consumatore (con il sistema della “doppia sottoscrizione” cui si è fatto cenno in precedenza).

Un esempio: oggi l’imprenditore che inserisca nel contratto da lui stipulato con il consumatore una clausola che designi come giudice competente quello nel cui ambito territoriale si trovi la sede della sua azienda, e non invece, il giudice nella cui circoscrizione si trovi il comune di residenza del consumatore, se diverso, si troverà di fronte – ove si serva di questa pattuizione in un contenzioso sorto con quest’ultimo – ad una probabile pronuncia di inefficacia della clausola (ammissibile, invece, in via generale ai sensi e nei limiti dell’art. 1341, comma 2 c.c.); l’ordinamento ha ritenuto, invero, iniquamente gravoso il fatto che, per le controversie in cui fosse coinvolto, il privato consumatore possa essere costretto a recarsi davanti un ufficio giudiziario lontano dal suo domicilio per proporre le proprie domande o per rispondere di proprie inadempienze nelle vertenze sorte con il professionista, con aggravio di costi ingiusto; ciò, attesa la sua posizione, ritenuta, sulla carta per lo meno, di minore disponibilità di mezzi anche economici rispetto a quest’ultimo (art. 33, comma 2, lett. u)). Ancora, sono a rischio grave di pronuncia d’inefficacia quelle clausole (che, lo si ripete, sono soggette al solo onere dell’approvazione specifica nei contratti stipulati tra “non consumatori”) le quali sanciscano a carico del consumatore decadenze, limitazioni alla possibilità di opporre eccezioni, limiti alla possibilità di produrre in giudizio prove che dimostrino le proprie tesi, o limiti alla possibilità di concludere contratti con altri soggetti (art. 33, comma 2, lett. t)). Norme specifiche sul punto sono poi stabilite per i rapporti negoziali bancari e per quelli di natura, finanziaria ed assicurativa.

Ampio e di gran rilevanza è, infine, il potere attribuito alle associazioni rappresentative di categoria (sia di imprese e professionisti, che di consumatori), nonché alle Camere di Commercio, di esperire delle vere e proprie azioni collettive nei confronti dell’imprenditore che utilizzi nei propri rapporti condizioni generali di contratto ritenute abusive, al fine di inibirgli ricorso a queste ultime (art. 37 D. Lgs. n° 206/2005).

Le premesse sopra svolte e gli esempi qui sopra riportati sono utili ad introdurre il punto essenziale della questione che si vuole trattare. E cioè che, nonostante la normativa citata sia in vigore ormai da diversi anni e a dispetto dei numerosi appelli delle varie associazioni di categoria, troppe volte i privati consumatori si dimostrano inconsapevoli della tutela giuridica indubbiamente rafforzata della quale possono giovarsi nei loro rapporti con professionisti ed imprese e rinuncino a farle valere nei casi che li riguardino, pur potendolo fare. Dall’altro lato, troppe volte questi ultimi sembrano ignorare i nuovi vincoli introdotti dal D. L.gs. n° 206/2005 al loro potere di imporre condizioni eccessivamente onerose per la controparte consumatrice, continuando purtroppo a predisporre schemi contrattali ormai obsoleti, con grave rischio di trovarsi coinvolti in vertenze giudiziali che, lungi dall’avere un esito per essi favorevole, terminano – nella migliore delle ipotesi – con pesanti condanne al pagamento delle spese legali avversarie.

Da qualunque parte si voglia guardare il problema, appare essenziale, tanto per i consumatori, quanto per imprenditori e professionisti, il poter contare su adeguata consulenza legale, tanto più in un mondo, come quello odierno, in cui i rapporti economici sono regolati spesso da accordi complessi ed articolati, dal contenuto non sempre agevolmente comprensibile e, per questo motivo, irti di possibili insidie e trabocchetti. Le recenti e, per certi aspetti, drammatiche vicende dei contratti finanziari conclusi da malcapitati risparmiatori, rimasti vittime di cospicue perdite patrimoniali, costituiscano sotto questo aspetto un monito duraturo.

Avv. Alessandro Cofano Studio Legale

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